Roma, piena estate. Alex, Brenda e Kevin ronzano tra la campagna del litorale e la città eterna tentando di resistere all’inesorabile avanzare del tempo e del caldo.
Alex ha appena compiuto 19 anni, Brenda è incinta e Kevin riempie la città con il suo nome: ognuno tenta di lasciare il proprio segno nel mondo. Una catena ininterrotta di situazioni, paradossi e caratteri si alternano fra loro in una costruzione narrativa vicina ad un anticonvenzionale romanzo di formazione.
Le singole esperienze, che Alex, Brenda e Kevin vivono, non sono una casuale sequenza di avventure bensì i gradini sulla scala del processo di orientamento, di crescita e maturazione. Le avventure sentimentali e la conquista dell’autonomia fanno da perno alle situazioni in cui Kevin e Brenda si invischiano, agendo d’istinto ma catalizzando passo dopo passo la corsa al grido “IO ESISTO” di Alex.
Esordio alla regia di Alain Parroni, che ha l’ha anche scritto insieme a Giulio Pennacchi e Beatrice Puccilli, Una sterminata domenica, vincitore del premio speciale della giuria di Orizzonti a Venezia 80, è un’opera prima che si propone fin da subito come un modello narrativo contemporaneo e pulsante, declinato al presente assoluto.
Il giovane Perroni, 31enne, abbonda infatti i modelli espressivi e produttivi consolidati del cinema italiano, specie per quel che figura l’abusato cinema delle periferie romane, per intavolare una cruda storia nichilismo e redenzione nell’estrema marginalità territoriale e urbana della capitale: “Mica come noi, che siamo come due fiorellini”, dice un eloquente linea di dialogo, che per sensibilità può rimandare, un po’ come tutto il film, allo stile slabbrato e ruvido dei gemelli Fabio e Damiano D’Innocenzo, con baci, bagordi, feste e fuochi da spiaggia da consumare rigorosamente sotto i fuochi d’artificio.
Per fare ciò, Perroni ricorre agli strumenti del cinema purissimo, fin dalla voice-over su schermo nero che puntella in maniera straziante l’inizio, attraverso la pura e vibrante sensibilità confessionale di uno dei protagonisti, che ci appare immediatamente incline a una disperata ricerca di attenzioni e pregno di dubbi per quel che riguarda una futura, possibile, forse non così improbabile, magari addirittura imminente genitorialità: “Meglio essere due genitori giovani e belli che du’ vecchi rincojoniti, no?“.
I titoli di testa diventano poi immediatamente mistici, accogliendo dentro di sé musiche spirituali gravose ma anche l’estetica dei manga giapponesi, per poi precipitarci immediatamente in una Roma assolata, malinconica e scandita dal cicaleccio in cui le ragazze hanno “voglia de nonna, andiamo a magnà da lei, così ce arza pure qualche sordo pa’ ‘a benzina”, le giostre travestito il loro vitalizio con la malinconia di vecchie telecronache sportive e la protagonista femminile è la classica “ragazza di periferia” alla Anna Tatangelo, dolcissima eppure lolitesca e davvero appetibile sessualmente.
Senza contare che c’è anche Papa Francesco in Piazza San Pietro che dice, accanto a un mimo bianco attempato, con la bandana verde: “Il vangelo di oggi, Gesù dice a suoi discepoli: voi siete sale della terra, voi siete luce del mondo“. Tutti elementi che Una sterminata domenica squaderna con un piglio da puro outsider, quasi una risposta malinconica e terracea al cinema di Harmony Korine e Nicolas Winding Refn, scandito dall’aforisma eloquente e intriso di romano, applicato cinismo: “Ma quanto cazzo dura sta giornata? Sta giornata? Sta vita, fraté“.
«La mia generazione è una questione di linguaggio», dice lui, che ha potuto vantare dell’apporto come produttore di Wim Wenders, le musiche originali del compositore giapponese Shiro Sagisu (compositore della colonna sonora della famosa serie anime, Neon Genesis Evangelion) e ha già all’attivo il pluripremiato cortometraggio ADAVEDERE, presentato alla 32° Settimana internazionale della critica. Con Una sterminata domenica, come detto dal direttore artistico della Mostra Alberto Barbera in sede di presentazione del programma di Venezia 80, “sconfina in un’esperienza visiva, sonora e musicale che si candida a diventare il manifesto maledetto di una generazione perduta“.
Una risposta elegiaca al vitalismo di Abdelatif Kechiche Kechiche, che qui, di fronte agli agnellini che non nascono bensì agonizzano, colpiti a morte, può comunque illuminare tutto facendo ricorso al naturalismo pittorico e calligrafico di Terrence Malick. Memorabile, oltre all’uso mirabile delle diapositive vintage di baci e slinguazzamenti vari che a un certo punto, circa alla meà, puntellano il racconto, accarezzati dalla bella e curata fotografia di Andrea Benjamin Manenti, anche il mononlogo d’apertura dei titoli di testa su schermo nero in cui sentiamo Alex dire, in un fluida e stropicciata parlata romanesca cadenzata, quasi alla Franco Califano:
“Non sono mai riuscito a fa capì quello che provo veramente. Cazzo m’avete fatto, manco so’ riuscito a fa’ la cosa più stupida come mette ar monno n’arta vita. È che io vorrei solo un po’ attenzione tutta sta gente”.
Foto: Fandango, Rai Cinema, Alcor, Art Me Pictures, Road Movie
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