Snowpiercer: la recensione della serie Netflix

Tratta dall'action-horror di Bong Joon-ho e dal graphic novel francese Le Transperceneige che aveva ispirato il film, la serie TNT, trasmessa in Italia da Netflix, trasforma la storia originale in un procedural drama

Snowpiercer: la recensione della serie Netflix

Tratta dall'action-horror di Bong Joon-ho e dal graphic novel francese Le Transperceneige che aveva ispirato il film, la serie TNT, trasmessa in Italia da Netflix, trasforma la storia originale in un procedural drama

Snowpiercer, la serie

Il processo di “serializzazione” di soggetti cinematografici potrebbe diventare una materia di studio per aspiranti sceneggiatori: ci sono casi esemplari di come è meglio non procedere, e Snowpiercer, di cui da qualche giorno sono disponibili su Netflix le prime due puntate, è uno di questi.

La serie racconta di un prossimo futuro in cui il degrado climatico ha portato a una prematura glaciazione, e gli unici esseri umani sopravvissuti vivono in moto perpetuo su di un treno-Arca, creato per preservare la specie.
Lo show propone una espansione verticale della proposta del film (e del fumetto che l’ha preceduto, entrambi citati come ispirazione nei titoli di testa) in modo tale da poter realizzare più di una stagione, tanto che la season 2 è stata confermata ancor prima che l’episodio 1 della prima fosse trasmesso. L’obiettivo è trasformare una storia che rappresenta una specie di grado zero della metafora sociale (le classi in cui è diviso il treno diventano letteralmente classi sociali, nel momento in cui il treno rappresenta il mondo intero), e che in origine si esaurisce nel racconto di una rivoluzione dal basso, in un contenitore di racconti potenzialmente replicabili all’infinito.

Snowpiercer diventa così una versione futuribile e distopica di Assassinio sull’Orient Express, con un detective del “Fondo” – ovvero la coda del treno, quella in cui qualche decina di disgraziati sopravvive mangiando topi e senza luce solare – portato in testa per indagare su un omicidio particolarmente cruento e probabilmente legato allo spaccio di una misteriosa droga sintetica. Nel frattempo il progetto rivoluzionario dei disperati e la loro risalita dei vagoni, su cui il film di Bong era basato, resta in secondo piano e costituirà probabilmente la trama orizzontale che collegherà le diverse stagioni.

La serie inizia, dopo un breve prologo, quando il treno è già in movimento da sette anni e ha compiuto un certo numero di volte il suo circuito (che, a meno di gallerie subacquee, è tutto compreso nel territorio nordamericano). I 1001 vagoni sono divisi in tre classi più il Fondo, e l’unica vera moneta di scambio è l’Accesso, ovvero la tecnologia per risalire la carovana verso la testa, dove i piaceri messi a disposizione dal misterioso signor Wilford diventano via via più sofisticati. La presenza di una moneta comporta la possibilità di una economia, e l’economia comporta la possibilità di un crimine.

Per gente bloccata da oltre un lustro in una gabbia meccanica che corre perennemente in tondo, senza futuro e senza prospettive che non siano la briscola o l’uncinetto, il tasso di suicidi dovrebbe essere alto, invece soprattutto i più ricchi sembrano soddisfatti di passare da anni le giornate seduti a un tavolo da caffè a parlare di niente.
Allo stesso modo, per un treno composto da 1001 giganteschi vagoni, il trasferimento dalla testa alla coda potrebbe richiedere ore, forse perfino giorni, e il passaggio di un certo numero di “frontiere”, mentre in ogni puntata di Snowpiercer i protagonisti si spostano alle opposte estremità del convoglio grazie a una rotaia interna che corre sotto il pavimento delle cabine, azzerando la percezione delle distanze.

Questi due spunti rappresentano il fallimento più evidente della serie, ovvero la sua incapacità di mettere in scena il tempo e lo spazio, che in una situazione del genere sono al contempo molto espansi e molto compressi, e dovrebbero rappresentare l’oro del narratore.
È il paradosso che ha fatto ad esempio la fortuna del romanzo di Agatha Christie con Hercule Poirot: l’Orient Express è un dispositivo a orologeria e un luogo fisico perfettamente connotato, mentre in Snowpiercer non si intuisce mai il peso del tempo che passa né la dimensione mastodontica del treno, non c’è alcuna gravità. D’altra parte un concept del genere obbliga a lavorare sempre in studio e mai on location: costruire ogni set ha un costo, ma non si può chiedere a uno spettatore di immaginare 1001 cabine quando gli vengono mostrati al massimo una decina di ambienti, ne servirebbero 10 volte tanti.

I problemi della serie non finiscono qui, ce ne sono di molto più banali: il casting, fatta eccezione per Jennifer Connelly, è composto da volti anonimi, e il protagonista Daveed Diggs sembra davvero una scelta al ribasso. Il trucco dei protagonisti e la fotografia degli ambienti sono sciatti, e non c’è alcuna ambizione registica che guidi le scelte di messa in scena, il che è probabilmente dovuto ai molti cambi in corsa (inizialmente il progetto era nelle mani dello showrunner Josh Friedman, sul cui script Scott Derrickson aveva girato un pilot da lui stesso definito “la cosa migliore fatta nella sua carriera”: tutti e due sono stati liquidati). Gli stessi spazi angusti sembrano sempre un problema per la macchina da presa, mai un’opportunità.

In conclusione, nessuno si aspettava che Snowpiercer potesse essere uno show di genere affascinante e politicamente poderoso quanto lo era il film di Bong Joon-ho; e altrettanto difficile era pensare a un racconto “biblico” e drasticamente pessimista sulla natura umana come lo sci-fi Aniara, storia di un astronave-crociera per ricchi alla deriva nello spazio. Ma l’esito finale denuncia una mancanza di ispirazione che va oltre le previsioni più pessimistiche.

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