Otto anni fa usciva la prima stagione di American Horror Story, la serie antologica firmata da Ryan Murphy e Brad Falchuk. Con l’obiettivo di cambiare scenario ad ogni stagione, sceglieva di partire da una casa infestata dai fantasmi, identificandola non solo come l’origine di una certa tradizione di genere ma, persino, come il luogo del subconscio di una nazione. La casa – anzi, la magione: antica, maestosa, appena un po’ fatiscente, con i suoi orologi a pendolo e le sue stanze chiuse – è il passato rimosso che minaccia, nel presente, il nucleo familiare americano.
Il libro che in genere viene preso a riferimento per storie di questo tipo – il tardo corrispettivo del Giro di Vite di Henry James – è The Haunting of Hill House di Shirley Jackson. In quel romanzo un antropologo invita nella grande casa del titolo alcuni sensitivi, per avere la prova che lì si verificano fenomeni paranormali. Tra di essi c’è Eleanor Vance, che da bambina ha assistito a uno di questi fenomeni.
Mike Flanagan parte da lì, dai nomi e dalle suggestioni di quel romanzo – cui sottrae intere descrizioni della grande casa del titolo -, per costruire una saga familiare del tutto originale. Il suo progetto è ambizioso: applicare la messa in scena stringata e un po’ brutale del cinema horror, con tutti i suoi trucchi da luna park, alle regole del dramma televisivo seriale. Detta in termini semplici, è come incrociare This is Us con The Conjuring.
Si capisce che una cosa del genere comporta dei rischi. Qui torna utile ripensare alla prima stagione di American Horror Story, Murder House: Murphy e Falchuck bruciano una quantità enorme di stimoli, come se l’obbligo alla sveltezza del dispositivo di genere li costringesse a una simile velocità di svolgimento della trama: la serie è brusca ed esplicita, piena di eccessi e divagazioni, e la messa in scena spinge in là l’orizzonte del mostrabile dentro il mainstream domestico (produce e trasmette Fox). Insomma, Murder House è solo in minima parte una proverbiale storia dell’orrore americana.
Flanagan invece non piega il mito al proprio discorso politico, si mette piuttosto al suo servizio con il trasporto dell’innamorato.
Ecco: guardatelo come dissemina spettri nel secondo piano delle sue inquadrature, quasi a buttarli via (chi li vede per davvero?). Come sparpaglia dettagli che paiono pretesti buoni giusto per un salto sulla poltrona, e poi invece li recupera e investe di senso una manciata di puntate dopo. Come ingarbuglia i pieni temporali e poi li scioglie con la naturalezza di un prestigiatore, sotto i nostri occhi. E poi pensate a quanto sia complicato tenere in piedi una costruzione del genere lungo dieci puntate e attraverso almeno 9 personaggi (di cui 7 principali). Lo vedete il talento?
Ma naturalmente non è solo questo, la tecnica è una questione di scrittura quanto di regia: l’esplorazione silenziosa dello spazio, le immagini mancanti e quelle da decifrare, il modo in cui i personaggi attraversano (e sono attraversati) dallo scorrere del tempo, tutto funziona sia come movente dell’inquietudine che come ragione del dramma. Che queste due cose siano la stessa, e con maggior chiarezza via via che si esaurisce il minutaggio, è il trionfo di Flanagan.
Hill House è appassionante, terrorizzante e a tratti perfino commovente. Ha un episodio da far accapponare la pelle – il quinto, la cosa più terrorizzante vista nel 2018 -, e uno di esaltante virtuosismo – il sesto. Si concede forse nel finale troppe spiegazioni inutili e un eccesso di sentimentalismo, ma ha messo abbastanza fieno in cascina fin lì da uscirne comunque indenne.
Non ve lo perdete e, se lo guardate la sera, non fatelo da soli.