Copenhagen Cowboy: morire come artista per rinascere come griffe. La recensione della nuova serie Netflix di Nicolas Winding Refn (anzi: byNWR)

L’ultima follia seriale di Refn è una sadica e magnetica provocazione d’artista sei episodi: un racconto noir che narra di una giovane ed enigmatica eroina, Miu, interpretata dall’attrice Angela Bundanovic, sprofondata in un mondo criminale danese torbido e oscuro, tra grugniti di maiali e naturalmente tantissime allucinazioni al neon

Copenhagen Cowboy: morire come artista per rinascere come griffe. La recensione della nuova serie Netflix di Nicolas Winding Refn (anzi: byNWR)

L’ultima follia seriale di Refn è una sadica e magnetica provocazione d’artista sei episodi: un racconto noir che narra di una giovane ed enigmatica eroina, Miu, interpretata dall’attrice Angela Bundanovic, sprofondata in un mondo criminale danese torbido e oscuro, tra grugniti di maiali e naturalmente tantissime allucinazioni al neon

Copenhagen Cowboy
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PANORAMICA
Regia (4.5)
Sceneggiatura (1.5)
Interpretazioni (3)
Montaggio (2.5)
Colonna sonora (4)

Una giovane ed enigmatica eroina, Miu (Angela Bundanovic), dopo una vita di servitù, alle soglie di un nuovo inizio, si aggira nel tetro paesaggio del mondo criminale di Copenaghen, trovando rifugio presso la tenutaria di un bordello con annesso porcile. Alla ricerca di giustizia e vendetta, Miu incontra la sua nemesi, Rakel (Lola Corfixen), e insieme intraprendono un’odissea nel naturale e nel soprannaturale. Alla fine, il passato trasforma e definisce il loro futuro e le due donne scoprono di non essere sole, ma di essere molti, in un inferno criminale danese popolato anche dalle mafie cinese, serbo-albanese e araba

Dopo Too Old To Die Young, realizzata per Amazon, il cineasta di Drive e Solo Dio Perdona torna nel mondo della serialità, stavolta per Netflix, con un progetto originalissimo e spiazzante in sei episodi: Copenhagen Cowboy è una sorta di bomba a orologeria piazzata nel cuore della serialità contemporanea, orientata a scuotere il pubblico con qualcosa di inedito e mai visto prima, sgretolando ogni aspettativa e comfort zone. La lavorazione della serie, realizzata in Danimarca, è partita con l’arrivo della pandemia, quando l’autore è stato costretto a rimanere nel suo paese natale e a mettere in stand-by dei progetti americani che aveva in cantiere. 

L’attrice protagonista è un altro degli alter ego cari a Refn, che eredita virtualmente lo scettro dai vari Bronson (Tom Hardy) in Bronson, One Eye (Mads Mikkelsen) in Valhalla Rising, Driver (Ryan Gosling) in Drive, il Tenente (Vithaya Pansringarm) in Solo Dio Perdona, Jesse (Elle Fanning) in The Neon Demon e i numerosi personaggi dello spettacolo Too Old to Die Young. Il suo nome è ispirato alla casa di moda Miu Miu del gruppo Prada, con cui è in atto una collaborazione che ha portato Refn a vivere a Milano per dedicarsi a svariati progetti, mentre la connotazione fisica del personaggio è molto diversa dagli altri di Refn, con una fragilità femminile molto più marcata e un volto che la fa somigliare a una sorta di piccolo e smagrito uccellino in gabbia, ma solo in apparenza indifeso.

Refn in Copenhagen Cowboy, che è in perfetta continuità con tutti i lavori passati del regista, anche con i suoi primissimi film, torna a distruggere i canoni della narrazione e sembra disintegrarli e polverizzarli a uno a uno in un flusso audiovisivo sempre più dilatato, come se la negazione del proprio passato fosse l’unica via per morire e rinascita come artista e come griffe (l’ormai celebre e riconoscibile firma in calce by NWR). Refn ormai pare aver definitivamente travalicano i confini del cinema e della serialità, per approdare a qualcosa di spaventosamente prossimo alla perversione dell’arte contemporanea, all’installazione da galleria, alla provocazione d’autore che setaccia il letame – senza alcun timore né auto-censura – in cerca di una forma oscena di trascendenza delle immagini

La castrazione del maschio e la relativa impotenza, uno dei temi cardine del suo cinema, qui non è nemmeno più una metafora, un sottotesto, il correlativo oggettivo di un ordine simbolico rovesciato: viene sfacciatamente e svergognatamente esposta fin dai dialoghi, che sono mere suppellettili di un’operazione di genere abitatata da streghe e fantasmi, torbida ed eterogenea, che prende ogni sviluppo narrativo in contro-tempo, senza paura di risultare al contempo perversa e romantica nell’esposizione di una violenza casuale e senza peso. Refn, in buona sostanza, non si vergogna più.

Per i nostalgici e le vedove del primo Refn, è chiaro che Copenhagen Cowboy possa lasciare interdetti ed essere rifiutata, magari anche in tronco, col rischio di essere scambiata per un’estenuante e interminabile pubblicità di moda. Si tratta però di una rivendicazione fortissima di discontinuità rispetto a tutto quello che si può vedere e trovare in giro oggi, specie sul piccolo schermo, perché nessuno come Refn pare avere il coraggio di esporre la propria nudità d’artista al cospetto dei propri demoni e tormenti, visualizzandoli con un stile che è tutto panoramiche cadenzate ed estremamente calibrate di 360° (ma anche gli split screen con tableaux vivants in movimento e le dissolvenza incrociate di Copenhagen Cowboy sono maiuscoli) e se ne infischia bellamente di poter risultare spossante e irritante

Piaccia o no, Refn si è guadagnato sul campo lo status di provocatore definitivo e senza ritorno e la sua arte si fa sempre più largo nel rimosso delle immagini, nel vuoto pneumatico che sta dietro la superficie, nelle pulsioni allucinatorie più sadiche degli esseri umani, mostrate come una lentissima danza di corpi filmati come pesci boccheggianti in un acquario rigorosamente al neon. La sessualità è ovunque, perché a essere invocato è anzitutto un rapporto carnale e sensuale dello spettatore con le immagini, ma di sesso propriamente detto non c’è nessuna traccia: tutto in Copenhagen Cowboy silenziato, ovattato, spogliato di pathos e desiderio, dolcemente mortificato.

Foto: byNWR, Netflix

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