Revenant: più che un film, un celebrity show

DiCaprio si sottopone a prove sempre più estreme in un film che somiglia a una prova di resistenza. E che tradisce nel modo più ovvio il bellissimo romanzo da cui è tratto

Revenant: più che un film, un celebrity show

DiCaprio si sottopone a prove sempre più estreme in un film che somiglia a una prova di resistenza. E che tradisce nel modo più ovvio il bellissimo romanzo da cui è tratto

Un survival movie girato con sguardo vagamente malickiano, soprattutto negli inserti onirici: Revenant (leggi la nostra recensione) è molto diverso da quanto si potevano aspettare i lettori del bellissimo libro di Michael Punke, che racconta l’odissea into the wild di Hugh Glass, trapper – ovvero esploratore e cacciatore – al servizio di una compagnia di pellami nell’America del primo Ottocento, guida di una squadra d’uomini malformata e di dubbia provenienza attraverso i territori ostili della Frontiera a nord, lungo il fiume Missouri e attraverso le Montagne Rocciose. È terra senza padroni, le cui smisurate risorse – il legno, il ghiaccio, la carne e appunto il pellame – sono disperse dentro una guerriglia continua, indiani che ammazzano europei, europei che ammazzano indiani, ma anche francesi contro inglesi, e tribù indigene che ne attaccano altre (gli Arikara, i Blackfeet, i Pawnee, ognuna con le sue tradizioni e il suo carattere).

È quasi un continente, senza strade e senza tribunali, la civilizzazione – imposta per interesse economico e umana curiosità, ambizione al possibile – è una faccenda di cartine geografiche da verificare, di avamposti in mezzo al niente, di pura resistenza agli elementi. Dentro questo mondo Punke mostra come i fatti degli uomini siano al contempo enormi e piccolissimi, c’è una transizione di valori e una trasformazione del senso delle azioni che è continua, la vendetta stessa del protagonista è una questione che a tratti sembra fondamentale e in altri momenti assurda, e infatti alla fine (SPOILER del LIBRO) non si compie, diventa altro, ognuno finisce su strade nuove dopo aver recuperato o assunto un diverso ruolo sociale (FINE SPOILER).

Per esempio. Glass viene aggredito da un orso, ne esce più morto che vivo, e a sorvegliarlo fino alla dipartita restano indietro, bloccati e sotto minaccia indiana, un ragazzino e un energumeno inglese. Quando se ne vanno e lo mollano lì che ancora respira, gli portano via il coltello e il fucile. E questo è tutto. Il coltello e il fucile, soprattutto quest’ultimo, un’arma bellissima, tedesca, firmata. Cioè gli portano via il mestiere, gli strumenti del suo orgoglio e della sua professione, lo riducono a un selvaggio, a un’ombra nel territorio. Non c’è traccia nel libro di un figlio indiano di Glass, come invece nel film, e la questione della sua rabbia non è mai una questione di sangue e di razza. Semplicemente c’è un patto tra colonizzatori, un patto professionale, si sta fondando una nuova Società, e qualcuno tradisce quel patto, agisce per il caos e contro il nuovo ordine che sta nascendo, distrugge l’identità economica di un compagno.

È chiaro che un film non va mai misurato sulla qualità dei testi che l’hanno ispirato, ma questo dettaglio illumina tutta l’operazione. Mentre gli uomini di Punke agiscono spinti da una forza che li sorpassa, da una specie di spaventoso istinto normativo, nel film di Iñárritu tutto è costruito attorno all’idea della famiglia multirazziale, dell’eroe buono che ricompone un mondo incomprensibile… accoppiandosi.
Ma anche al di là dell’idea politica, preparatevi ad affrontare due ore e quaranta in cui DiCaprio (e lo amiamo anche noi, non fraintendeteci) fa tutto tranne che recitare, obbligato a mangiare carne cruda, midollo osseo, pesci vivi, a nascondersi nella carcassa di un cavallo, a girare nudo in mezzo alla neve, come se fosse coinvolto in uno di quei reality show televisivi con le celebrità. L’idea di messa in scena è tutta qua, nel “cosa si spingerà a fare”, nel'”ammazza che coraggio!”.

Anzi no, c’è pure tutta la direzione di Lubezki, luci e inquadrature, che tentano per tutto il tempo nell’impresa impossibile di farci smarrire, dentro una storia che conosciamo come le nostre tasche.

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